Il fatto che in Italia sia oggi il centrodestra ad esprimere, di fatto, una Presidente del Consiglio donna, Giorgia Meloni – e che la stessa sia stata ampiamente premiata dal consenso popolare alle elezioni di pochi giorni fa -, sta mandando in crisi il fronte progressista, non solo politico, oltre ogni aspettativa. Sì, perché se da un lato era prevedibile che questo spiazzasse, dall’altro era difficile aspettarsi attacchi tanto forti verso un esecutivo che, giova rammentarlo, deve ancora costituirsi; non è, quest’ultimo, proprio un dettaglio. Eppure, in queste ore si assiste ad una alluvione di critiche anche molto pesanti nei confronti della futura inquilina di Palazzo Chigi.
Si va dalla giornalista Rula Jebreal, la quale ha tirato in ballo i trascorsi del padre di Meloni – facendo indispettire perfino Carlo Calenda («questa è una bassezza») -, a Michele Santoro che, ancora prima che essa possa iniziare il suo mandato, ha già bocciato la leader di Fratelli d’Italia: «Io penso non abbia le capacità di fare la Presidente del Consiglio»; dal giornalista Marco Travaglio, secondo cui le «ingerenze straniere sono uno dei successi» di Meloni, fino – per venire al Trentino – alla professoressa Barbara Poggio, secondo cui si tratta di «una leader di un partito maschile», se non maschilista.
Ora, appartenendo ad un altro partito, la Lega, sia pure di centrodestra – ma che in questa tornata elettorale non ha dato il meglio, e del quale la stampa sta inventando immaginari attriti proprio con Fratelli d’Italia -, sono nella posizione sostanzialmente ideale di chi, davanti a tutto questo, potrebbe voltare la testa altrove. Potrei insomma davvero far finta di nulla eppure, mi si scuserà, proprio non riesco. Non mi riesce reputare normale cotanto, francamente desolante spettacolo.
Sì, perché non riesco a qualificare diversamente quanto sta avvenendo ad opera della sinistra – e per di più, spesso ad opera di donne che appartengono o simpatizzano per quell’area -, e cioè un clamoroso processo alle intenzioni nei confronti di un governo per la prima volta, in Italia, guidato da una donna, anche se non ancora insediatosi. Non è forse questo, mi chiedo e chiedo a ciascuno, una grave quanto plateale forma di pregiudizio? Non c’è forse una insanabile contraddizione tra il professarsi a favore della parità di genere salvo poi, quando una figura femminile arriva dove mai nessuna prima di lei, travolgerla di critiche, peraltro quasi tutte preventive?
Quale credibilità possono realisticamente avere delle proposte e delle posizioni culturali che, a parole, sembrano promuovere la dignità femminile in quanto tale ma, nei fatti, la appoggiano e la difendono solo e soltanto se inquadrata in un sistema di valori ben rigido e definito, quello liberal e radical chic, laicista e femminista, che cromaticamente ondeggi tra il rosso e l’arcobaleno?
Mi fermo qui, a tali interrogativi, perché lascio le certezze a chi dice di combatterle – bollandole spesso come stereotipi -, e perché credo che chiunque, dinnanzi a constatazioni fattuali come quelle che ho poc’anzi riportato, possa benissimo farsi la propria idea. I fatti mi paiono infatti così evidenti che, purtroppo, non resta davvero che prenderne amaramente atto.
Mara Dalzocchio